Tempo già fu che tristemente in terra
languia la vita dé mortali, oppressa
da religiosi orror; dall’alto cielo
sugli uomini incombea, con minaccioso volto,

dé numi il pauroso inganno;
allor che primo un uom di greca stirpe
gli occhi mortali sollevar contr’esso osò,
fissarlo osò.

Né l’ampia fama
del divin poter, né la scagliata
folgore, o il cupo mormorar del cielo,
valse a domarlo, ma di più vivace
impeto in cor gli suscitò la brama
d’infranger, primo, le sbarrate porte
del ciel, drizzando all’universo il volo.
E sua viva virtù vinse, l’estremo
lembo dei mondi.

E l’etere fiammante,
e la profonda immensità del tutto
con l’ala aperta del pensier trascorse;
e vittorioso recò a noi la luce
del novello saper; quali nel mondo
forme di vita nascano, e di quali
non sia concesso il nascere, qual sia
d’ogni cosa creata il fine, e quale
l’irremovibil termine che ad esse
ed al loro poter natura pose.

Onde a sua volta sotto il pié prostrata
della conquisa conoscenza umana
religion si giace, e la vittoria
or l’uomo esalta al culmine dei cieli.

 
 
Tito Lucrezio Caro (I sec. a.C.), De Rerum Natura, I libro, dedica a Epicuro.
Portato alla mia distratta attenzione da Margherita Hack, Il mio infinito.